giovedì 10 dicembre 2009

IN UN TEMPO PICCOLO


Il mio tempo piccolo ha il frastuono di un nascondino selvaggio, marce in reset di “ Un due tre STELLA “, e lo stellone chi se lo ricorda più. Il mio tempo piccolo odora di mani appiccicose di patatine, e di manine appiccicose nelle patatine. Le sorprese in piccole uova di cioccolata, e figurine che ne manca sempre una a finire l’album, facciamo a cambio, no, vaffanculo.
Il mio tempo piccolo sono i cartoni animati belli, con le sigle belle che canti a memoria sulla strada per la scuola, non sbagli una parola in quella bolgia di grembiuli bianchi e blu. Le femmine profumano di buono e tu, profumi sempre di qualcos’altro.
Il mio tempo piccolo sono i denti da latte sotto il cuscino, e topi che te lo cambiano in denaro sonante, solo pochi spiccioli però. Maledetta pantegana dalle braccine corte.
Il mio tempo piccolo è fatto di latte caldo d’inverno e ginocchia sbucciate nella calura estiva, di giocattoli muscolosi e biciclette con il cambio che non serve a un cazzo, di pomeriggi con la luce a mezz’asta, con il naso nell’odore pungente dell’inchiostro dei fumetti. Mantenere alto il livello di cazzate è facile, anche quando Babbo Natale e la Befana diventano una favola con cui prendere per il culo chi ci crede e i film di “Paura “ fanno paura sul serio.
Il mio tempo piccolo è il bigliettino d’amore per la compagna al primo banco, quella con gli occhi celesti di un celeste come non lo è nessun celeste. Non lo trovi neanche tra i colori nuovi del tuo astuccio nuovo. Il cuore disegnato sopra sembra più un fegato, ma va bene lo stesso. A lei non piace, a lei piace quell’altro della classe di fianco. Gli piace perché è più grande e perché dice : “ CAZZO FIGA VAFFANCULO BOCCHINO “, e tutti ridono. Anche io conosco quelle parole, le ho viste nei film dove Er monnezza sfinisce di sberle Bombolo. Preparo un altro bigliettino. Voglio farla ridere anche io. Sopra ci scrivo TROIA.
Ma non ride nessuno.

giovedì 3 dicembre 2009

DYLAN IN UN GIARDINO DI DELIZIE


UNA GRAN BELLA STORIA. Ammetto che il commento iniziale non è da premio Pulitzer ma, diamine, è una gran bella storia. Mi riferisco all’ultimo DYLAN DOG che potete trovare in edicola. “ IL GIARDINO DELLE ILLUSIONI “, ha il sapore dei vecchi Dylan che leggevo un sacco di tempo fa, quelli firmati da un certo signor SCLAVI. Avvincente, cupa, malinconica e ricca di riferimenti alle indagini più amate del nostro Old Boy, questa storia conferma il talento sempre più marcato di Paola Barbato. La storia strizza l’occhio a capolavori come “ ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE “ ( e con l’arrivo del film di Tim Burton scivola giù che è un piacere ), “ SHINING “ di Kubrick e a tutto quel miasma di luoghi comuni che rendono i filmacci di serie “ Z “, filmacci che ci piacciono. Brillanti e coinvolgenti i disegni di Marco Soldi, con un Dylan mai così somigliante a Rupert Everett. Nell’attesa, tra un mese, di “ MATER MORBI “, bivacco tra le pagine di un Dylan Dog che sembra aver ritrovato la sua vena “ Strana “. Giuda Ballerino ragazzi.

mercoledì 30 settembre 2009

SOGNI D'ORO


Alla fine è successo. L’onda anomala della REMAKE MANIA ha travolto e rilasciato sull’arida spiaggia del cinema contemporaneo, anche il più celebre e bruciacchiato mostro anni ottanta, l’artigliato signore dei sogni, mister Freddy Krueger.
Diretto da Samuel Bayer il nuovo NIGHTMARE ON ELM STREET, si prepara ad ingrossare le fila di mostri storici, rispolverati in chiave moderna. C’è stato Faccia di cuoio, con l’eccellente remake di “ Non aprite quella porta “, poi è toccato a Michael Myers nel deludente rifacimento di “ Halloween “, ( Per quanto Rob Zombie sia uno dei migliori registi horror in circolazione, l’originale aveva dietro la macchina da presa un certo John Carpenter, e che cazzo ), poi è stata la volta di Jason Whoores nel rifacimento di “ Venerdì 13 “, una mezza cagatina un po’ come le pellicole originali che lo hanno ispirato.
Non ci rimane, quindi, da aspettare il 30 aprile 2010, data di uscita della pellicola, per tirare le somme. Per i più ghiotti e impazienti è già disponibile su You Tube, il primo trailer ufficiale, in cui è possibile vedere il volto del nuovo Freddy, l’attore Jackie Earle Haley, il meraviglioso Rorschach di Wathcmen. Scelta azzeccata ma mai efficace quanto il volto storico di Robert Englund. Nel filmato ho notato alcune scene storiche, come l’artiglio che emerge dalla schiuma da bagno e lo sventramento della ragazza davanti agli occhi del fidanzato, ve la ricordate “ TINA, TINAAAAAAAAAA “ , e nel complesso il film sembra promettere bene. Per quanto un amante del genere come me ha storto non poco il naso di fronte a un rifacimento del buon zio Freddy. Ai posteri, e al grande schermo, l’ardua sentenza. Nel frattempo mi piazzo nel lettore dvd l’originale gioiellino di Wes Craven, continuando a ripetere, come una vecchio nostalgico e spaccapalle, che i film horror non li fanno più come una volta.

venerdì 26 giugno 2009

ANOTHER DEAD STAR


Ci sono notizie a cui non credi. Le lasci scivolare per evitare di fare i conti con la realtà. Ma la realtà, volenti o nolenti, vince. Michael Jackson è morto. Il re del pop se ne è andato per sempre. Non ci si abitua mai alla dipartita dei grandi artisti. Soprattutto se questi hanno influenzato in qualche modo la tua vita. Mi è sempre piaciuto Jackson, i suoi dischi hanno segnato il periodo in cui la musica ha iniziato a sedurmi seriamente ( Suo il primo disco che ho comprato ), prima che arrivasse il rock a rendermi quell’adolescente cupo e inquieto che, in fondo, sono tutt’ora alla soglia dei ventisei anni. Ma non importa, dischi come Thriller e Bad rimangono, ancora adesso, tra le cose migliori che abbia mai ascoltato.
Per quanto se ne sia parlato male, per quanto i guai giudiziari abbiano offuscato la sua stella, è innegabile che Jackson sia stato un talento puro: una voce particolare, un modo di ballare inarrivabile e la capacità di scrivere, comporre e produrre. Carriere così possono vantarle solo Elvis o i Beatles.
Sono abituato ad artisti che non ci sono più. Posso immaginare cosà accadrà tra breve. Funerali in pompa magna, esondazioni di dischi postumi, maree alte di speciali televisivi ed editoriali. Infiniti fiumi di inchiostro sui misteri della sua morte e testimonianze spasmodiche di chi lo crede ancora vivo. Ci saranno tante belle parole, verranno fuori anche da quelle bocche che, quando era in vita, lo definivano un “ Mostro strambo”, ma è così che funziona, this is the show. Alla fine, come si è già detto per altri prima di lui, rimane la sua musica e, credetemi, non è poco.

martedì 16 giugno 2009

JAM SESSION



Le scale, per Eric, erano diventate un problema. Gradino dopo gradino, verso le profondità del suo scantinato, serpeggiavano dolori viscidi nelle sue gambe. Con la voce in completo elegante da urlo, scartabellava nomi di santi mettendoli in coda ad aggettivi suini. Mancava poco all’alba, alla morbida alternanza di colori primi, e il nero lo avvolgeva come una coperta d’ottobre lungo la discesa.
Trovare l’interruttore nella consistenza sabbiosa di polvere e ragnatele, gli riusciva ormai automatico. Un gesto, un rumore sordo, e un’onda giallognola di luce a sporcare tutto l’ambiente circostante. Il viso di Eric assunse una forma da origami, nel cercare di abbozzare un sorriso. Di fronte ai suoi occhi gli strumenti di una vita. La chitarra Gibson comprata con i risparmi sudati, il vecchio basso di Steven e la batteria di Clark, gigantesca sotto il telo rosso tacchino.
Un sottile strato umido iniziò ad adagiarsi, scintillante, ai bordi dei suoi occhi, sospinto da ricordi inarrestabili, come le barchette di carta in seno a rivoli gonfi di pioggia.
Lanciò uno sguardo sghembo verso la finestrella in cima alla parete, l’unica fessura da cui entrava aria e dalla quale aveva lasciato uscire sogni bagnati di una gloria asciutta. Era stato giovane li sotto, erano stati giovani tutti, lui Steven e Clark. Dietro i loro strumenti avevano infestato quel luogo sordo di un frastuono siderale. Costruito, nota dopo nota, immagini di stadi pieni, come campi coltivati di delirio umano, un raccolto di mani alzate a lanciare corna al cielo.
Poi, era arrivato l’abbandono. Come un temporale estivo l’allontanamento dei suoi compagni, aveva spinto Eric a quel senso di rinuncia castrante. Rinuncia a possibili deliri fangosi a Woodstock, rinuncia alle tette grosse delle groupies, che ti fanno diventare grande nei pantaloni. Rinuncia ad una giovinezza che si allontanava allargandogli la pancia, lasciando i suoi capelli al suolo, come tracce di un “ Pollicino “ disperato, che non avrebbe più fatto ritorno.
Eric si avvicinò alla parete di fondo, dietro il dinosauro informe della batteria. Con la sua mano grassoccia, carezzò la superficie grezza dei mattoni. Dietro quella coperta di calce dormivano Steven e Clark, uno vicino all’altro, per sempre. Era riuscito a farli tornare sui loro passi, li aveva convinti a rinunciare ai sogni infranti dell’età adulta, aveva dirottato la loro insubordinazione. A volte bastava solo parlare, davanti a un buon caffè, e a due o tre zollette di topicida. Il mezzo drastico non lo infastidiva, Eric stava di nuovo con la sua band, è questo che conta in fondo, è questo che ti rende grande nelle interviste ipocrite che fanno bagnare le ragazzine.
L’alba saltò fuori come un animale in agguato, svegliando mezzo emisfero dal suo letargo notturno. Schegge rettangolari di luce, filtravano dalla finestrella in cima, a riempire lo spazio polveroso dello scantinato. Eric nella sua siluette che pungolava le pupille come un maglione a rombi, rimase a guardare, appiccicandosi alle iridi, le prime sfumature celesti, di quel cielo vecchissimo.

giovedì 4 giugno 2009

SEI TU JOHN WAYNE ?


Giornata tra amici. Risate, discorsi che riconducono sempre alla figa, grandi propositi e piccole voglie di metterli in pratica. Fin qui tutto nella norma. Poi arriva il pomeriggio e il rito si compie, “ Che ne dite di un film?”. Scorro con le dita tra le fila ordinate dei miei dvd, come in uno schedario compromettente. Le scelte si rincorrono, “ Io voglio vedere questo, io non ho visto quest’altro, cooosa? Non l’hai visto? MA CHE CAZZO CAMPI A FA? “. Dopo le dovute pratiche di burocrazia da cameretta, ecco che sul piatto del mio lettore finisce il capolavoro bellico di Kubrick.
Ne è passata di acqua sotto i ponti dall’ultima volta che ho visto FULL METAL JACKET. Conoscendo il film molto bene ho pensato di gustarmelo senza il brivido di nuove sorprese e… SORPRESA? La pellicola mi ha colpito nuovamente come se la stessi vedendo per la prima volta, è a questo che servono i capolavori no?
Su diversi fronti il film è destinato a mescolarsi a quella parte di memoria che tiri fuori nei momenti da “ Figo “. L’addestramento iniziale, ad esempio, ci offre una ricchezza di linguaggio che neanche Er Monnezza saprebbe eguagliare, ( se le parolacce urtano la vostra sensibilità, con una pellicola del genere rischiereste una gravidanza isterica ), Con un sergente istruttore che oggi farebbe scintille su Youtube e nuovi metodi di impiego del sapone. Con le cervella di “ Palla di lardo “, ancora gocciolanti sulle bianchissime piastrelle del bagno, si passa alla fase bellica. Il capolavoro si compie in tutta la sua perfezione di regia e sceneggiatura. Kubrick fa la differenza mostrandoci l’esaltazione dell’America fatta a pezzi da un nemico praticamente invisibile. Di vietcong cattivi se ne vedono ben pochi, sono quasi un’ombra fuori campo. Fanno bella mostra di se un ladro di macchinette fotografiche con la passione per Bruce Lee e le deliziose prostitute esperte di “ Succhia succhia “ e “ Amore lungo lungo “. Il geniale regista ci mostra uomini o troppo convinti di se o troppo ingenui, ( se trovate un grosso peluche a forma di coniglio in mezzo a una strada distrutta in una città distrutta, è bene non raccoglierlo ). Scordatevi John Rambo con le sue frasi ad effetto e il suo arco “ Ammazza charlie “, e tanti saluti al rodimento di culo di un certo Robin Hood.
Nelle macerie della cittadina di Hue, la tragica scoperta. A farcire di piombo gli addestratissimi marines, ci ha pensato una giovane ragazza. Una vietnamita anche abbastanza carina. Senza fucile in mano la inviterei volentieri per una pizza e un cinemino. Se volete sapere come realmente la guerra può ridurre un uomo, date un’occhiata a questo film meravigliosamente meraviglioso, altrimenti c’è sempre Rambo e vaffanculo.
Non vedo l’ora che arrivi Natale per cantare, “ Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti auguri Gesù Cristo, tanti auguri a teee”. Appagante, non c’è che dire.

lunedì 27 aprile 2009

BADILATE DI EROISMO


La città fluida come amianto, scioglieva il suo nero tra le ombre dei passanti. In vicoli fumosi da hard boiled, una donna ventosa come le più sonnacchiose mattine di marzo, scompigliava le foglie di quell’autunno obliquo. Astratta come un set di bicchieri da salotto, stupiva e attirava attenzioni.
Con occhi esplosivi, incompreso come una comitiva di scout, un eroe seguiva la scia di quella figura femminile. Sulle sue spalle, il peso di quella città stanca come un asfaltista a ferragosto.
Quello era un luogo cattivo in un’ora cattiva. Le donne sole odoravano di pericolo incombente. Dietro il suo vicolo sudicio, era pronto ad intervenire. Aveva fatto tutti i compiti. Letto Watchmen, comprato tutine in spandex. Serissimo nel suo essere calcolatore come una carriola rovesciata.
Con colpetti di tacco ben assestati, la dolce donzella si avvicinava al suo sconosciuto eroe. Con un balzo l’uomo le appiccicò sulle pupille la sua presenza, un sorriso da dentifricio dimenticato, per infonderle maree di sicurezza. Ferma di fronte all’ometto, notava la sua figura trasparente come lanugine. Rise la donna metallica come un pezzo dei Bee Gees. Rise di quell’uomo in calzamaglia, rise del suo eroismo da Postalmarket, delle sue mutande gialle sdraiate sui pantaloni.
Rimasto solo, facendo mosaici con pezzi di orgoglio, l’eroe respirava il cemento della sua città, impavida come una marmotta, sciolta tra le ombre dei passanti.

martedì 14 aprile 2009

Poesia # 4

Solo acqua fredda,
dall’alto
come a lacrimare.

E vento forte,
la luce viene e
se ne va.

Frinire impazzito
di falene nei tuoi
occhi.

lunedì 30 marzo 2009

FUORI PIOVE


Fuori piove, e la tua immagine evanescente, sfuma in questa fitta nebbia da incensiera. Il tuo sorriso si accoccola come un ricordo accecante, lontano richiamo di aule scolastiche illuminate al neon. Nella mia tenebra vado tastoni con gli occhi aperti, e il rumore di quest’acqua pazza mi riempie come un travaso di fiducia.
Goccia dopo goccia, sfilo questa lama dal petto masticando il mio sangue. Quel che rimane non è poi tanto. Cocci aguzzi di forme strane, che raccolgo con due dita.
Sorrido ad imitazione della linea dell’orizzonte, dove ogni cosa acquisisce colori pastello al tramonto, tramutando queste schegge di tempo, in pallidi fantasmi di nostalgia. Ogni cosa scorre, come un fiume in piena, come la pioggia che muore nei torrenti ai bordi delle strade, tra foglie cadute e barchette di carta stagliate verso il domani.
Mi piaceva tenerti le mani, fredde contro le mie più fredde. Nelle nostre vene, spilli di fantasie strane, imitavano scene già viste. Lasciarti andare è un’amara rassegnazione, mi combatte come un pugile suonato. Ogni cosa perde sapore, ma non ho altra scelta che assaggiare.

Fuori piove. Mezzelune d’acqua orizzontali, si inseguono in verticale, sul vetro della mia finestra. Ogni singola goccia colpisce queste quattro mura, come proiettili di questa guerra silenziosa. L’odore dolciastro dell’aria che annega, mi riempie il respiro. Trattengo il fiato facendomi spazio in sguardi in cui non sono previsto, mordendo forte questo lembo di tempo, a cui non appartengo. Intanto piove, questo rumore bagnato, assorda il silenzio.

giovedì 12 marzo 2009

NELL'ESTATE


Mattina. Non molto presto a giudicare dalla luce che taglia la stanza. Non mi importa, da oggi posso permettermi di scavalcare le alzatacce. Sollevo la testa dal cuscino e sembra più leggera. La frangetta scura dei mie capelli, ricade come neve sui miei occhi. Osservo per pochi istanti il mondo attraverso linee nere. Muovo piccoli passi nella stanza vuota. Ogni passo strappa il silenzio come un tessuto vecchio e muffito. Tutto intorno a me ascolta. I miei giocattoli accatastati male, He man abbracciato a Skeletor, sarebbe un ‘idea. Rido e vado oltre. Raccolgo da terra un sussidiario da iniziare e un Dylan Dog da finire, ascoltando lo scalciare della mia voglia che si barcamena fra i due, vada per il fumetto e non se ne parli più. Tutto ha un odore diverso, leggero, carico di aspettative e buoni propositi, ammorba il mio presente già pieno di ciò che sarà. Entro in cucina con la testa piena di musichette da pubblicità. La mia colazione mi ricorda sapori che già dimentico. Lo sguardo sguscia fuori, nei i rettangoli azzurri di cielo tra le fronde degli alberi. La pioggia ha la consistenza di un ricordo che sbiadisce, di un viso che perde fisionomia, ma che riconosceresti tra milioni. Quando tornerà tutto questo sarà finito, ora è appena cominciato. Sosto davanti alla porta con le mani in tasca. Frugo l’interno con dita indagatrici, un inventario fatto di doppioni di figurine e sorprese smontate di ovetti di cioccolata. Abbassare la maniglia è impresa da poco, attraverso l’uscio l’estate mi guarda, io ricambio il favore. L’aria sottilissima mi scompiglia i capelli con il suo retrogusto già troppo caldo. Poso un piede oltre il gradino ed entro in quell’atmosfera dolce di crema abbronzante, in un boato di cicale.

martedì 3 marzo 2009

Poesia # 3

Siamo vento di mare,
brezza leggera dal
sapore amaro.

Ridiamo del nostro sole
e piangiamo della nostra
pioggia.

Siamo una trapunta
di rumore,
che culla e affonda.

martedì 24 febbraio 2009

FABER


Faber sonnecchiava sdraiato in un campo di grano. Respirava il vento caldo di un’altra estate, all’ombra di mille papaveri rossi. Piero doveva essere sepolto da qualche parte nei dintorni. Ucciso da una guerra fatta di nemici che non ricambiano la cortesia. Faber sfiorò il suo ricordo con il pensiero. In fin dei conti a Marinella era andata anche peggio. Non gli era mai piaciuta molto, aveva sempre preferito Bocca di Rosa e il suo talento speciale, in fin dei conti, per fare il suo mestiere, ci voleva anche un po’ di vocazione.
L’aveva incontrata per la prima volta in Via del Campo, tra tipi strani che vendevano le loro madri a un nano e ragazzine dagli occhi color di foglia. In quella città vecchia dove ogni inverno saliva la nebbia sui prati bianchi. Ricordava la sua figura quasi angelica, nei rettangoli di luce di quell’ultimo sole, alla cui ombra riposava un pescatore.
Le parlò come quando si prega, cercando di rassicurarla se mai qualcuno fosse venuto a chiedergli del loro amore. In quel Giugno del 73, la portò sotto braccio fino al fiume Sand Creek, tra il frastuono della smisurata preghiera di centinaia di anime salve.
Nonostante la loro fosse una storia sbagliata, danzarono il Valzer per il loro amore, tra le note del suonatore Jones, riversate nell’aria dal suo flauto spezzato. La seguì ovunque sulla sua cattiva strada. Era con lei anche quando salì su quel maledetto treno, salutandola per sempre, tra le imprecazioni del sagrestano e le occhiatacce dei gendarmi, con tanto di pennacchi e armi.
Faber continuava a godersi l’ondeggiare rosso dei papaveri. Nella città vecchia la terra accoglieva con gran frastuono il ritorno di re Carlo dalla battaglia di Poitiers. Il ragazzo immaginava l’umore nero del sire. Ben sette cervi gli avevano rubato dal parco, e tutto solo per denaro.
Faber lasciò che un leggero sorriso si sdraiasse sulla sua faccia. Sarebbe rimasto in quel campo, in quel suo Hotel Sopramonte, mentre la città sotto di lui impiccava Geordie. Lo avrebbero fatto con una corda d’oro, ma a lui non importava.

lunedì 16 febbraio 2009

Poesia # 2

Da qualche parte,
oltre il temporale,
ci risveglieremo.

Con le nostre strade
ancora dentro,
con piccolissime lacrime
da conservare nel portafoglio.

E non diremo una sola bugia,
con le nostre mani in tasca,
verso casa.

sabato 7 febbraio 2009

CENTO GIORNI


Michele stava in silenzio con le spalle incollate al muro. Masticava la sua gomma senza sapore, provandoci gusto. Davanti ai suoi occhi, gli amici di una vita vivevano. In quella serata di inizio marzo, l’aria gelida faceva finta di non vedere una primavera imboscata tra i cespugli di quel mondo urbano. Michele non la sentiva, il freddo gli scivolava attraverso come un fiume senza anse.
Mancavano solo cento giorni, cento spicchi di tempo alla maturità, cento passi verso l’inizio di una fine.
I suoi compagni all’interno del locale, esorcizzavano i loro demoni tra musica assordante e rassicuranti fumi etilici. Michele preferiva starsene fuori, spalle al muro, gomma in bocca e pensieri leggeri. Il suono proveniente dall’interno era simile al battito di un cuore aritmico. “ Una cazzo di festa del cazzo, eh eh eh, oh si “, le parole schizzarono fuori dalla porta d’ingresso, seguite dal tuono hardcore delle casse a pieno regime. A parlare era Fausto, un metro e settantadue di puro niente. Michele lo conosceva dalla prima media. Non lo aveva mai capito. Fausto era una persona inerte, la massima fatica che riusciva a fare durante la giornata, consisteva nell’allacciarsi le scarpe.
Lasciava quasi affascinati il modo in cui si lasciasse scivolare il mondo addosso, tutto quello di cui aveva bisogno era un reticolato di vene, e qualche litrata di sangue da farci passare attraverso. Fausto rideva di gusto barcollando nell’aria gelida del piazzale, con gesti dinoccolati cercava di bere birra da una bottiglia vuota da chissà quanto. L’alcool gli aveva dato la caccia, e lui si era lasciato catturare ben volentieri. Michele gli appiccicò gli occhi addosso ridendo a sua volta. La sua attenzione fu presto richiamata dal cigolio della porta del bagno esterno, che si apriva come in vecchio horror in bianco e nero. Ne sgusciò fuori Mario con un’espressione raggiante sul suo viso costantemente abbronzato. Dietro di lui fece capolino Sara. Il suo rossetto sbafato spiegava la soddisfazione del suo accompagnatore. Michele guardava il suo viso privo della sua maschera abituale. Di fronte agli occhi del padre e degli insegnanti, la ragazza era un monumento virginale. Sobria, educata, stretta in maglioni a collo alto e adagiata in mutande filo ascella foderate di assorbente rigorosamente esterno. Nel vederla avresti pensato che il suo imene poteva dormire sonni tranquilli. Invece ecco la piccola e casta Sara nella sua natura ambigua, una sorta di Joker d’alto borgo.
“ Cazzo quanto vorrei che Michele fosse qui “, gracchiò Fausto sollevando la bottiglia vuota al cielo, “ Che Dio ti abbia in gloria amico “, i conati di vomito presero il posto del suo “ Amen “.
Quelle parole ubriache riversarono nella mente di Michele immagini nitide: La strada bagnata, il suo motorino che scivola sull’asfalto, lui che scivola via dalla sua vita. Cento giorni, Michele sorrise, erano passati cento giorni esatti dalla sua morte. Cento giorni prima dei cento giorni del poi.
Sara si avvicinò barcollando, afferrando la nuca dell’amico intento a riversare sul selciato i resti di una cena poco salutare. “ Sono sicura che in qualche modo lui è con noi “, bisbigliò la ragazza senza esserne troppo convinta. “ Più di quanto tu non creda “, Avrebbe voluto rispondere Michele, ma era una frase troppo scontata. “ Ora rilassati Fausto “, squittì l’amica, “ Pensa al futuro “. La parola futuro salì nella bocca di Michele. Lui la masticò insieme alla sua gomma. Con le spalle al muro, in quella sera di inizio marzo, rimase a vedere senza essere visto. Nel petto la sensazione che a lui, in fondo, sia andata meglio.

venerdì 30 gennaio 2009

Poesia # 1

Ci siamo visti
Invecchiare veloce.

Solchi nella pelle,
sabbia nella voce.

E il nostro odio
divenuto rancore.

Scioltosi in bocca
Senza sapore

martedì 27 gennaio 2009

SOTTO UNA LUCE DIVERSA


L’aria nella stanza era elettrica e dolciastra. Contro la finestra socchiusa, James non era altro che una siluette scura. Seduto sul letto sfatto, ascoltava il ritmo incerto del suo respiro. I suoi occhi arrossati fissavano i sottili fasci di luce entrare obliqui dalle veneziane accostate, la polvere vi danzava dentro quasi guidata da una musica sorda.
Era una giornata di sole strano. Densa di una luce da comunione. La luminosità di quelle domeniche puzzolenti d’incenso, in chiese stipate di parenti in assetto da perbenismo. Splendidi i loro sorrisi indossati come mascherine da chirurgo, immersi in discorsi inutili atti a coprire travasi di invidie e frustrazioni, in diretta competizione con la bile. Abili ricercatori di tempismo comico, snocciolanti freddure sul tempo e sul lavoro che gli offre più grane che soldi. Domeniche ricolme di ragazzini a mani giunte, inespressivi nei loro vestitini da idioti, con i loro visini da idioti, sotto un taglio di capelli terribilmente da idioti.
James si passò una mano sulla testa, i suoi capelli non erano conciati tanto meglio. Non che il resto brillasse dello scintillio della bellezza. Magrissimo, le sue costole sporgevano come animali in cerca disperata di ossigeno. Il suo viso, scavato e pallido, addentava la sua autostima ad ogni riflesso sullo specchio.
La sua vita gli aveva lasciato segni ben profondi, messi in fila come le incisioni sul muro di un carcerato. Paranoico, spaventato e con una timidezza che gli si appoggiava addosso come il pappagallo di un pirata.
Nonostante l’afrore melmoso di decadenza che lo accompagnava, James metteva tutti di buon umore. Ancora gli risuonava nelle orecchie l’eco delle risate che la sua figura goffa sollevava ad ogni passaggio. Risate cattive, velenose, accompagnate da insulti e dita puntate come armi. Lame fatte di labbra distorte e denti smaltati, gli avevano inciso carne e anima come un tatuaggio estremo.
Sollevatosi dal letto con uno scatto deciso, il ragazzo inspirò fino a farsi bruciare i polmoni. Era inutile rimestare nel passato, era cresciuto ormai, ora sapeva come sistemare le cose, ora sapeva come guadagnarsi il rispetto.
Uscì dalla stanza con passo incerto, si sentiva pesantissimo nonostante il corpo sottile. Arrivato davanti alla porta del bagno rimase immobile. Con un nodo allo stomaco accese la luce. Il bianco pallido del neon gli ferì gli occhi, era diverso dalla luce strana fuori dalla finestra, niente domeniche clericali, niente parenti cenciosi. Immerso in quel pallore spettrale, solo il bianco delle maioliche, il giallo opaco delle righe di sporco nel lavandino, e il rosso acceso dell’enorme pozza di sangue sul pavimento. Al centro della pozza il corpo senza vita di una donna. James rimase a guardarle il viso, nonostante la devastazione lo trovava ancora bellissimo. L’amava, l’aveva sempre amata. Per lei aveva vinto la paura, la timidezza, l’ansia. Preso il coraggio a quattro mani, l’aveva invitata a casa sua. Quasi gli era scoppiato il cuore quando aveva accettato. Nonostante il silenzio, gli sembrò di avvertire una musica sottile nel pronunciare i suoi sentimenti. Ma lei aveva riso, come tutti gli altri.
Rimase a guardarla ancora un attimo, non voleva ricordarla in quel modo, ma era meglio di niente. James, quasi evanescente scomparve dalla porta del bagno per riapparirvi poco dopo. Aveva portato con se la borsa degli attrezzi. Dopo avervi frugato dentro ne estrasse un seghetto. Aveva fatto un po’ di ordine nella sua vita. Era il momento di sistemare anche quel macello.

martedì 20 gennaio 2009

IL VIAGGIO DI DANNY


Il sole si era portato con se un po’ di luce giallognola, in quella prima alba dell’ultima estate degli anni cinquanta. Lungo una strada di campagna dai confini scontornati, viaggiava un'unica automobile. Il suo rumore graffiante spezzava l’aria resa pesante da una brina insolita. Alla guida di quella Buick roadmaster color canna di fucile, c’era Steve, ventiduenne spaventato e già troppo sudato nonostante l’aria ancora fresca. Sul sedile posteriore il suo amico Danny moriva minuto dopo minuto.
La rapina alla vecchia drogheria FENNY, sembrava scorrere liscia come acqua di fiume, poi quel poliziotto troppo giovane per indossare la sua divisa, aveva piazzato nel ventre di Danny, il seme metallico della sua pistola di ordinanza. La fuga rapida li aveva spinti oltre la contea, in quel nulla agreste che sembrava prolungarsi all’infinito, come la luce di quell’alba che diventava giorno.
La strada su cui viaggiavano era una sottile linea polverosa ai margini di quadrati di terra messi a coltivazione.
Danny teneva le labbra serrate, il dolore lo avvolgeva come una coperta che gli toglieva calore. La mano sul ventre per fermare sangue che aveva deciso di emanciparsi. Fuori dai finestrini di quell’auto il mondo correva più veloce di loro, nell’alternarsi di giallo e verde, delle coltivazioni di girasoli e campi messi a maggese.
Steve aveva urlato qualcosa, parole che Danny aveva smesso di udire. Nel freddo che lo faceva sentire sbagliato in quel primo giorno d’estate, il ragazzo lasciava scivolare nei suoi occhi tutta quella vita che non gli era appartenuta, tutto quel mondo che non avrebbe più visto. Un mondo fatto di ragazzi con giubbotti bianchi e rossi, quelli con la “ A “ gialla ricamata sopra, lanciati alla conquista di ragazze in abiti pastello, incoscienti con il vento tra i capelli nelle loro auto color confetto, a concepire figli non voluti alla luce altalenante dei drive in. Quegli stessi ragazzi che da li a qualche anno, avrebbero posato le divise scolastiche per indossare uniformi verdi, carichi di coraggio a caccia di Charlie. Tanto avrebbero pianto le loro madri nelle loro cucine in radica, nella loro realtà smaltata da casette a schiera. Danny non aveva mai conosciuto una madre da far piangere, ne avrebbe conosciuto tutta questa fetta di presente che diventava futuro. Sarebbe morto sul sedile posteriore di una Buick in quel primo giorno d’estate. La storia che si srotolava fuori da quell’auto, come un animale selvatico, sarebbe presto balzata fuori, per inghiottire la sua.

mercoledì 14 gennaio 2009

COME IN UN FILM


Giulia correva avanti e indietro per la stanza. Come un cane che rincorre una pallina, compiva gli stessi gesti in automatico, incurante del fiato corto.
Lui stava arrivando e non poteva permettersi errori. Sarebbe stato come in quel film, quello che gli era piaciuto tanto. Sedutasi un attimo sul letto ben ornato di cuscini rossi, la sua alcova di desiderio, prese a torturarsi la camicia da notte. Le emozioni più profonde iniziarono a salirgli dallo stomaco come lava vulcanica. Girò gli occhi verso la finestra, gettando lo sguardo in quella fetta di mondo che per lei adesso si chiamava “fuori”. Al riflesso pallido e muffito dei lampioni, i fiocchi di neve sembravano brillare di luce artificiale. Piccole lampadine piovute dal cielo in un silenzio innaturale.
Le sembrò di trovarsi di fronte a un quadro in movimento, la cornice ideale per quella serata. Nevicava anche in quel film, il primo che avevano visto insieme. Il cuore iniziò a scalciargli nel petto, come autostrade nell’ora di punta, le sue arterie presero a riversargli adrenalina nelle corsie d’emergenza del suo cervello.
Si alzò di scatto urtando il tavolino in noce vicino al letto. La bottiglia di champagne tintinnò pericolosamente nel cestello del ghiaccio posato sopra. Per un soffio evitò un disastro di vetro infranto. Nel loro film preferito non c’era lo champagne, ma ora più che mai Giulia pensò che era perfetto. Si sarebbe giocata la carta della bottiglia subito. Un leggero sorriso le deformò le labbra, mentre si disegnava nella sua testa l’immagine di un brindisi d’altri tempi, con le bollicine del vino, come piccole scaglie di luce, che si riflettevano negli occhi di lui, di un verde unico, come la prima erbetta di marzo, come il semaforo che ti fa passare.
I passi del suo uomo iniziarono a tamburellare i gradini della grande scala che portava alla loro stanza. Giulia nell’udirli, rimase immobile, sguardo fisso sulla porta, e bottiglia ben stretta tra le mani. Era dietro la porta, avvertiva il suo respiro irregolare, l’odore dolciastro della sua acqua di colonia color pioggia. “ Amore”, esclamò la donna con un filo di foce. La risposta che ottenne fu sonora e secca. Un colpo violento fece vacillare la porta, al centro di essa faceva capolino la mezzaluna metallica di un’ascia. Le grida di Giulia furono coperte da una serie di colpi sempre più violenti. L’ascia si insinuava nella stanza attraverso il legno frantumato, scomparendo un attimo dopo e pronta a rientrare più minacciosa e vicina di prima. Era come in quel film, solo che lei non si chiamava Wendy. Le esplose in petto, la certezza terrificante di un finale alternativo.