venerdì 30 gennaio 2009

Poesia # 1

Ci siamo visti
Invecchiare veloce.

Solchi nella pelle,
sabbia nella voce.

E il nostro odio
divenuto rancore.

Scioltosi in bocca
Senza sapore

martedì 27 gennaio 2009

SOTTO UNA LUCE DIVERSA


L’aria nella stanza era elettrica e dolciastra. Contro la finestra socchiusa, James non era altro che una siluette scura. Seduto sul letto sfatto, ascoltava il ritmo incerto del suo respiro. I suoi occhi arrossati fissavano i sottili fasci di luce entrare obliqui dalle veneziane accostate, la polvere vi danzava dentro quasi guidata da una musica sorda.
Era una giornata di sole strano. Densa di una luce da comunione. La luminosità di quelle domeniche puzzolenti d’incenso, in chiese stipate di parenti in assetto da perbenismo. Splendidi i loro sorrisi indossati come mascherine da chirurgo, immersi in discorsi inutili atti a coprire travasi di invidie e frustrazioni, in diretta competizione con la bile. Abili ricercatori di tempismo comico, snocciolanti freddure sul tempo e sul lavoro che gli offre più grane che soldi. Domeniche ricolme di ragazzini a mani giunte, inespressivi nei loro vestitini da idioti, con i loro visini da idioti, sotto un taglio di capelli terribilmente da idioti.
James si passò una mano sulla testa, i suoi capelli non erano conciati tanto meglio. Non che il resto brillasse dello scintillio della bellezza. Magrissimo, le sue costole sporgevano come animali in cerca disperata di ossigeno. Il suo viso, scavato e pallido, addentava la sua autostima ad ogni riflesso sullo specchio.
La sua vita gli aveva lasciato segni ben profondi, messi in fila come le incisioni sul muro di un carcerato. Paranoico, spaventato e con una timidezza che gli si appoggiava addosso come il pappagallo di un pirata.
Nonostante l’afrore melmoso di decadenza che lo accompagnava, James metteva tutti di buon umore. Ancora gli risuonava nelle orecchie l’eco delle risate che la sua figura goffa sollevava ad ogni passaggio. Risate cattive, velenose, accompagnate da insulti e dita puntate come armi. Lame fatte di labbra distorte e denti smaltati, gli avevano inciso carne e anima come un tatuaggio estremo.
Sollevatosi dal letto con uno scatto deciso, il ragazzo inspirò fino a farsi bruciare i polmoni. Era inutile rimestare nel passato, era cresciuto ormai, ora sapeva come sistemare le cose, ora sapeva come guadagnarsi il rispetto.
Uscì dalla stanza con passo incerto, si sentiva pesantissimo nonostante il corpo sottile. Arrivato davanti alla porta del bagno rimase immobile. Con un nodo allo stomaco accese la luce. Il bianco pallido del neon gli ferì gli occhi, era diverso dalla luce strana fuori dalla finestra, niente domeniche clericali, niente parenti cenciosi. Immerso in quel pallore spettrale, solo il bianco delle maioliche, il giallo opaco delle righe di sporco nel lavandino, e il rosso acceso dell’enorme pozza di sangue sul pavimento. Al centro della pozza il corpo senza vita di una donna. James rimase a guardarle il viso, nonostante la devastazione lo trovava ancora bellissimo. L’amava, l’aveva sempre amata. Per lei aveva vinto la paura, la timidezza, l’ansia. Preso il coraggio a quattro mani, l’aveva invitata a casa sua. Quasi gli era scoppiato il cuore quando aveva accettato. Nonostante il silenzio, gli sembrò di avvertire una musica sottile nel pronunciare i suoi sentimenti. Ma lei aveva riso, come tutti gli altri.
Rimase a guardarla ancora un attimo, non voleva ricordarla in quel modo, ma era meglio di niente. James, quasi evanescente scomparve dalla porta del bagno per riapparirvi poco dopo. Aveva portato con se la borsa degli attrezzi. Dopo avervi frugato dentro ne estrasse un seghetto. Aveva fatto un po’ di ordine nella sua vita. Era il momento di sistemare anche quel macello.

martedì 20 gennaio 2009

IL VIAGGIO DI DANNY


Il sole si era portato con se un po’ di luce giallognola, in quella prima alba dell’ultima estate degli anni cinquanta. Lungo una strada di campagna dai confini scontornati, viaggiava un'unica automobile. Il suo rumore graffiante spezzava l’aria resa pesante da una brina insolita. Alla guida di quella Buick roadmaster color canna di fucile, c’era Steve, ventiduenne spaventato e già troppo sudato nonostante l’aria ancora fresca. Sul sedile posteriore il suo amico Danny moriva minuto dopo minuto.
La rapina alla vecchia drogheria FENNY, sembrava scorrere liscia come acqua di fiume, poi quel poliziotto troppo giovane per indossare la sua divisa, aveva piazzato nel ventre di Danny, il seme metallico della sua pistola di ordinanza. La fuga rapida li aveva spinti oltre la contea, in quel nulla agreste che sembrava prolungarsi all’infinito, come la luce di quell’alba che diventava giorno.
La strada su cui viaggiavano era una sottile linea polverosa ai margini di quadrati di terra messi a coltivazione.
Danny teneva le labbra serrate, il dolore lo avvolgeva come una coperta che gli toglieva calore. La mano sul ventre per fermare sangue che aveva deciso di emanciparsi. Fuori dai finestrini di quell’auto il mondo correva più veloce di loro, nell’alternarsi di giallo e verde, delle coltivazioni di girasoli e campi messi a maggese.
Steve aveva urlato qualcosa, parole che Danny aveva smesso di udire. Nel freddo che lo faceva sentire sbagliato in quel primo giorno d’estate, il ragazzo lasciava scivolare nei suoi occhi tutta quella vita che non gli era appartenuta, tutto quel mondo che non avrebbe più visto. Un mondo fatto di ragazzi con giubbotti bianchi e rossi, quelli con la “ A “ gialla ricamata sopra, lanciati alla conquista di ragazze in abiti pastello, incoscienti con il vento tra i capelli nelle loro auto color confetto, a concepire figli non voluti alla luce altalenante dei drive in. Quegli stessi ragazzi che da li a qualche anno, avrebbero posato le divise scolastiche per indossare uniformi verdi, carichi di coraggio a caccia di Charlie. Tanto avrebbero pianto le loro madri nelle loro cucine in radica, nella loro realtà smaltata da casette a schiera. Danny non aveva mai conosciuto una madre da far piangere, ne avrebbe conosciuto tutta questa fetta di presente che diventava futuro. Sarebbe morto sul sedile posteriore di una Buick in quel primo giorno d’estate. La storia che si srotolava fuori da quell’auto, come un animale selvatico, sarebbe presto balzata fuori, per inghiottire la sua.

mercoledì 14 gennaio 2009

COME IN UN FILM


Giulia correva avanti e indietro per la stanza. Come un cane che rincorre una pallina, compiva gli stessi gesti in automatico, incurante del fiato corto.
Lui stava arrivando e non poteva permettersi errori. Sarebbe stato come in quel film, quello che gli era piaciuto tanto. Sedutasi un attimo sul letto ben ornato di cuscini rossi, la sua alcova di desiderio, prese a torturarsi la camicia da notte. Le emozioni più profonde iniziarono a salirgli dallo stomaco come lava vulcanica. Girò gli occhi verso la finestra, gettando lo sguardo in quella fetta di mondo che per lei adesso si chiamava “fuori”. Al riflesso pallido e muffito dei lampioni, i fiocchi di neve sembravano brillare di luce artificiale. Piccole lampadine piovute dal cielo in un silenzio innaturale.
Le sembrò di trovarsi di fronte a un quadro in movimento, la cornice ideale per quella serata. Nevicava anche in quel film, il primo che avevano visto insieme. Il cuore iniziò a scalciargli nel petto, come autostrade nell’ora di punta, le sue arterie presero a riversargli adrenalina nelle corsie d’emergenza del suo cervello.
Si alzò di scatto urtando il tavolino in noce vicino al letto. La bottiglia di champagne tintinnò pericolosamente nel cestello del ghiaccio posato sopra. Per un soffio evitò un disastro di vetro infranto. Nel loro film preferito non c’era lo champagne, ma ora più che mai Giulia pensò che era perfetto. Si sarebbe giocata la carta della bottiglia subito. Un leggero sorriso le deformò le labbra, mentre si disegnava nella sua testa l’immagine di un brindisi d’altri tempi, con le bollicine del vino, come piccole scaglie di luce, che si riflettevano negli occhi di lui, di un verde unico, come la prima erbetta di marzo, come il semaforo che ti fa passare.
I passi del suo uomo iniziarono a tamburellare i gradini della grande scala che portava alla loro stanza. Giulia nell’udirli, rimase immobile, sguardo fisso sulla porta, e bottiglia ben stretta tra le mani. Era dietro la porta, avvertiva il suo respiro irregolare, l’odore dolciastro della sua acqua di colonia color pioggia. “ Amore”, esclamò la donna con un filo di foce. La risposta che ottenne fu sonora e secca. Un colpo violento fece vacillare la porta, al centro di essa faceva capolino la mezzaluna metallica di un’ascia. Le grida di Giulia furono coperte da una serie di colpi sempre più violenti. L’ascia si insinuava nella stanza attraverso il legno frantumato, scomparendo un attimo dopo e pronta a rientrare più minacciosa e vicina di prima. Era come in quel film, solo che lei non si chiamava Wendy. Le esplose in petto, la certezza terrificante di un finale alternativo.