giovedì 21 gennaio 2010

GOTICO RURALE



La tradizione del racconto ha radici antiche. Richiama immagini da focolare, vecchi che raccontano con voce sinistra e occhi sbarrati di bambini all’ascolto. Senti nelle narici l’odore della brace accumulata, e il vento freddo che stride sulle finestre, sembra entrarti nelle ossa. Finita la storia, questa non morirà. Passerà di bocca in bocca, orecchio ad orecchio, fino a diventare un monito a cui credere veramente, fino a diventare parte di ciò che sei.
GOTICO RURALE di ERALDO BALDINI è tutto questo, nero su bianco. Dodici storie al sapore dell’incubo nostrano. Paesaggi agresti, paludi nebbiose, paeselli appisolati, costituiscono le location base di queste gemme di narrativa nera. Con uno stile asciutto e piacevolmente scorrevole, lo scrittore di Ravenna ci racconta il lato più oscuro e nascosto dell’Italia , per l’appunto,“ rurale “. Attingendo a piene mani dalle vecchie tradizioni contadine, le storie di Baldini spaventano per l’imprevedibilità del male raccontato, per l’effetto dell’inaspettato, del “ Non è possibile che in un luogo simile capitino fatti del genere “. In fondo, come pronunciato dallo stesso autore, dove il sole batte più forte, l’ombra è più nera.
Le ombre raccontate in GOTICO RURALE sono tangibili e pericolose. Hanno la forma di streghe che si muovono nella nebbia di palude, di vendette nella notte di Natale, di feste di paese mortali. Non fanno eccezione neanche i bambini, presenza fissa della narrativa di Eraldo Baldini, mettendo in luce la parte più buia di se.
Racconti come LA COLLINA DEI BAMBINI e L’INSUCCESSO SCOLASTICO E LE SUE CONSEGUENZE ne sono la più diretta dimostrazione. Quest’ultimo, insieme a FOTO RICORDO, rappresenta il punto più alto e inquietante del libro.
Particolarmente consigliato a chi non ha voglia di dormire, a chi crede che per fare paura bisogna andare nel Maine, a chi ama i film di Pupi Avati, GOTICO RURALE si farà leggere e ricordare. Per le prossime vacanze, un consiglio, rimanetevene in città.

REC 2



Jaume Balaguerò e Paco Plaza hanno fatto di nuovo centro. Hanno piazzato un numero “ 2 “ di fianco al titolo più riuscito della loro carriera senza, per questo, deludere nessuno. Impresa ardua nel cinema horror contemporaneo, schiavo di remake e schiacciato dall’onda deludente di seguiti su seguiti.
REC 2, ha inizio pochi istanti dopo la fine del primo. La giornalista di “Mentre tu dormi “ è stata trascinata nell’oscurità. Dall’interno del condominio infettato, nessuna risposta. Una squadra speciale, guidata da un sedicente ispettore dell’igiene, entra nel luogo del massacro. Inutile dire che finiranno in un vortice di violenza e terrore al di fuori di ogni limite.
Sono bravi i due registi, bravi e capaci. Capaci di strizzare l’occhio ad un cinema di genere che ha fatto epoca, mescolare il tutto, e riproporre un prodotto destinato, a sua volta, ad imprimersi in un immaginario collettivo sull’orlo della sterilità.
Se nel primo capitolo era evidente una forte influenza di stampo “ Romeriano “, con tanto di zombi ed infezione dilagante a colpi di morsi, in questa seconda pellicola, i due registi spagnoli, rendono omaggio a quel filone demoniaco - esoterico, tipico degli anni settanta. Forti sono i rimandi a “L’esorcista “ di Friedkin, con tanto di bambina posseduta. La spiegazione dell’accaduto, assume infatti caratteristiche più soprannaturali, con un insospettabile prete in incognito pronto a condurre, con una determinazione snervante, la sua missione a cavallo fra fede e scienza. La svolta in questione può forse deludere i puristi del primo episodio, ma rende sicuramente la visione, se possibile, ancora più angosciante e opprimente.
Invariato rimane lo stile di regia, telecamera amatoriale in spalla a documentare la vicenda. Un POV in grado di assumere una sfumatura quasi video ludica, nella baraonda militaresca con tanto di armi in soggettiva.
Spaventoso, sanguinario, claustrofobico e dispensatore di salti olimpionici sulla vostra poltrona, REC 2 è tutto questo e molto altro.
Un consiglio, astenersi persone con torcicollo, la scena del bambino che spunta dal soffitto, vi farà camminare con il naso per aria per un bel po’.

mercoledì 13 gennaio 2010

ZOMBIE ATE MY NEIGHBORS


Un piccolo sforzo di immaginazione.
Seconda metà degli anni novanta. Sei un ragazzino di tredici anni, nel tuo corpo gli ormoni scoppiano come razzi Katiuscia e il tuo interesse malsano per tutto ciò che è horror, sangue, sbudellamenti e “ Mamma mia il mostro!!!! “, ti sale in gola come un travaso di bile.
Sotto la tua televisione troneggia una consolle dei tempi antichi, il grigiore del Super Nintendo ha il valore di una splendida policromia ai tuoi occhi avidi di emozioni video ludiche. La Playstation muove i primi passi, macina successi e stordisce a colpi di grafica “ DA PAUUURA “. Te ne freghi, in fin dei conti sei un nostalgico e ci sta bene. Inserisci nel tuo Super Nes la cassetta di ZOMBIE ATE MY NEIGHBORS e scopri che la parola FICO che la tua bocca sputa un giorno si e l’altro pure, assume un significato concreto.
Il gioiellino della KONAMI è un tripudio di colore e spudoratezza horror/godereccia. Nei panni di due ragazzini armati di un devastante…fucile ad acqua, cercate di salvare quanti più vicini possibile lungo quartieri, supermercati,sabbie egiziane e campi da football, inseguiti da putridi zombie e dalla masnada più spudorata di icone horror che un gioco possa sopportare. Dai sosia di Jason Voorhees con tanto di ascia, alle bamboline assassine, dai vermoni stile “ Tremors “ al conte Dracula in persona. Ci sono anche gli alieni con tanto di ufo sparafulmini, roba da far schiattare di invidia Enrico Ruggeri.
La grafica è l’apoteosi del bidimensionale alla massima semplicità e, forse, il bello sta proprio lì. Il bello di un’immagine da sala giochi, quel sapore anni ottanta che ti fa venire voglia di finire il gioco con un solo gettone. Coloratissimo, horror, grottesco all’inverosimile e, a tratti, di una difficoltà inumana, ZOMBIE ATE MY NEIGHBORS è uno spasso per gli occhi e per la vostra sete di avventura. Un piccolo classico del passato che con la sua freschezza rockabilly può anche permettersi di rifilare qualche calcio in culo ai classici moderni. Se vi piace far saltare teste a zombi putridi, Abbandonate momentaneamente le lande di Silent Hill e saltate su.

lunedì 11 gennaio 2010

I LOVE KISS


Mi piacciono i KISS. Li ascolto a volume vandalico dallo stereo in camera mia. Cento Watt effettivi di frastuono in quattro quarti. Dall’altra stanza mamma urla e non capisce. Per lei è solo rumore che si insidia tra i vapori del pentolame, una minaccia ai suoi programmi da massaia in prima linea. Cosa ne vuole capire lei di questo appagamento da cassa pulsante. Lei ascoltava Orietta Berti, ha lasciato la barca andare e ha deciso che era il momento di smetterla di vivere ed iniziare a ciabattare nel lustro dei suoi pavimenti immacolati.

Mi piacciono i KISS e a scuola lo sanno. Un buon motivo per essere presi a calci nel culo. Marco lo fa con dedizione, un professionista serio non c’è che dire. Riconosco la suola delle sue scarpe, il colpo deciso dello Stakanovista stronzo. Tutti ridono e assaporano l’umiliazione. Cinzia ride e assapora l’affondare umido della sua lama nel mio petto.

Mi piace Cinzia e non ne faccio mistero. Quando la vedo mi corrodo, è un acido Cinzia, invadente e letale. La amo nonostante il parolone che non si deve dire, al massimo T.V:B. che non impegna e garantisce la fica umida. Ho provato a farglielo capire, ma stare muto a fissarla non si è rivelato un buon metodo.

Lo succhia Cinzia. L’ ha succhiato a Carlo, a Giovanni, persino ai gemelli Stefanucci, un doppio carpiato a colpi di lingua. L’ha succhiato pure a Marco, anche se lui dice di essersela fatta completamente, in posizioni da wrestler professionista. Mi incazzo ma non lo dico, rimango ad ascoltare con il mio residuo di erezione che si fa strada nelle mutande strette.

Mi piacciono i KISS e questa sera lo dico a Cinzia. Truccarsi aiuta. Il cerone bianco non contrasta con il mio pallore. Copre i brufoli, il che è un bene. Disegno la stella nera sull’occhio destro. Ho preferito Paul Stanley, che Gene Simmons fa troppo “ Ti prendo e ti scopo “. Imbraccio lo strumento ed esco.

Cinzia ha gli occhi verdi. Lo noto bene da come li tiene sgranati e incollati su di me. Ho deciso per una bella serenata. Mi piacciono i KISS e questa sera li canto per lei. Temo abbia notato che al posto della chitarra stringo un fucile. Muovo frenetiche le dita della mano sinistra lungo la canna, in un assolo perfetto che sento solo io. Rivolgo lo strumento verso di lei. Rido. Il momento del pezzo forte è arrivato. I WAS MADE FOR LOVING YOU BABE.

martedì 5 gennaio 2010

MATER MORBI


Apri l’albo. Sbirci gli autori, è tutto lì, nero su bianco. TESTI: RECCHIONI, DISEGNI: CARNEVALE. Sai già che avrà un buon sapore. Non è un fumetto, è un dolce succulento che mangeresti anche a un passo dal black out diabetico. Certi rischi si affrontano, perché poi dici “ E quando mi ricapita? “. Parole sante, mie, ma pur sempre sante. Perché un Dylan Dog così non ti ricapita tanto facilmente. Profondo, emotivamente autoreferenziale e macabro come una favola in acido di Tim Burton. Verso la fine può anche salire un nodo alla gola, e ti piace, fa parte del gioco, è la sensazione malsana del dopo ottovolante. Roba che racconti più e più volte. MATER MORBI, DYLAN DOG N. 280. Da assumere con decisione. La convinzione di aver letto una grande storia è l’effetto collaterale più sicuro.