martedì 24 febbraio 2009

FABER


Faber sonnecchiava sdraiato in un campo di grano. Respirava il vento caldo di un’altra estate, all’ombra di mille papaveri rossi. Piero doveva essere sepolto da qualche parte nei dintorni. Ucciso da una guerra fatta di nemici che non ricambiano la cortesia. Faber sfiorò il suo ricordo con il pensiero. In fin dei conti a Marinella era andata anche peggio. Non gli era mai piaciuta molto, aveva sempre preferito Bocca di Rosa e il suo talento speciale, in fin dei conti, per fare il suo mestiere, ci voleva anche un po’ di vocazione.
L’aveva incontrata per la prima volta in Via del Campo, tra tipi strani che vendevano le loro madri a un nano e ragazzine dagli occhi color di foglia. In quella città vecchia dove ogni inverno saliva la nebbia sui prati bianchi. Ricordava la sua figura quasi angelica, nei rettangoli di luce di quell’ultimo sole, alla cui ombra riposava un pescatore.
Le parlò come quando si prega, cercando di rassicurarla se mai qualcuno fosse venuto a chiedergli del loro amore. In quel Giugno del 73, la portò sotto braccio fino al fiume Sand Creek, tra il frastuono della smisurata preghiera di centinaia di anime salve.
Nonostante la loro fosse una storia sbagliata, danzarono il Valzer per il loro amore, tra le note del suonatore Jones, riversate nell’aria dal suo flauto spezzato. La seguì ovunque sulla sua cattiva strada. Era con lei anche quando salì su quel maledetto treno, salutandola per sempre, tra le imprecazioni del sagrestano e le occhiatacce dei gendarmi, con tanto di pennacchi e armi.
Faber continuava a godersi l’ondeggiare rosso dei papaveri. Nella città vecchia la terra accoglieva con gran frastuono il ritorno di re Carlo dalla battaglia di Poitiers. Il ragazzo immaginava l’umore nero del sire. Ben sette cervi gli avevano rubato dal parco, e tutto solo per denaro.
Faber lasciò che un leggero sorriso si sdraiasse sulla sua faccia. Sarebbe rimasto in quel campo, in quel suo Hotel Sopramonte, mentre la città sotto di lui impiccava Geordie. Lo avrebbero fatto con una corda d’oro, ma a lui non importava.

lunedì 16 febbraio 2009

Poesia # 2

Da qualche parte,
oltre il temporale,
ci risveglieremo.

Con le nostre strade
ancora dentro,
con piccolissime lacrime
da conservare nel portafoglio.

E non diremo una sola bugia,
con le nostre mani in tasca,
verso casa.

sabato 7 febbraio 2009

CENTO GIORNI


Michele stava in silenzio con le spalle incollate al muro. Masticava la sua gomma senza sapore, provandoci gusto. Davanti ai suoi occhi, gli amici di una vita vivevano. In quella serata di inizio marzo, l’aria gelida faceva finta di non vedere una primavera imboscata tra i cespugli di quel mondo urbano. Michele non la sentiva, il freddo gli scivolava attraverso come un fiume senza anse.
Mancavano solo cento giorni, cento spicchi di tempo alla maturità, cento passi verso l’inizio di una fine.
I suoi compagni all’interno del locale, esorcizzavano i loro demoni tra musica assordante e rassicuranti fumi etilici. Michele preferiva starsene fuori, spalle al muro, gomma in bocca e pensieri leggeri. Il suono proveniente dall’interno era simile al battito di un cuore aritmico. “ Una cazzo di festa del cazzo, eh eh eh, oh si “, le parole schizzarono fuori dalla porta d’ingresso, seguite dal tuono hardcore delle casse a pieno regime. A parlare era Fausto, un metro e settantadue di puro niente. Michele lo conosceva dalla prima media. Non lo aveva mai capito. Fausto era una persona inerte, la massima fatica che riusciva a fare durante la giornata, consisteva nell’allacciarsi le scarpe.
Lasciava quasi affascinati il modo in cui si lasciasse scivolare il mondo addosso, tutto quello di cui aveva bisogno era un reticolato di vene, e qualche litrata di sangue da farci passare attraverso. Fausto rideva di gusto barcollando nell’aria gelida del piazzale, con gesti dinoccolati cercava di bere birra da una bottiglia vuota da chissà quanto. L’alcool gli aveva dato la caccia, e lui si era lasciato catturare ben volentieri. Michele gli appiccicò gli occhi addosso ridendo a sua volta. La sua attenzione fu presto richiamata dal cigolio della porta del bagno esterno, che si apriva come in vecchio horror in bianco e nero. Ne sgusciò fuori Mario con un’espressione raggiante sul suo viso costantemente abbronzato. Dietro di lui fece capolino Sara. Il suo rossetto sbafato spiegava la soddisfazione del suo accompagnatore. Michele guardava il suo viso privo della sua maschera abituale. Di fronte agli occhi del padre e degli insegnanti, la ragazza era un monumento virginale. Sobria, educata, stretta in maglioni a collo alto e adagiata in mutande filo ascella foderate di assorbente rigorosamente esterno. Nel vederla avresti pensato che il suo imene poteva dormire sonni tranquilli. Invece ecco la piccola e casta Sara nella sua natura ambigua, una sorta di Joker d’alto borgo.
“ Cazzo quanto vorrei che Michele fosse qui “, gracchiò Fausto sollevando la bottiglia vuota al cielo, “ Che Dio ti abbia in gloria amico “, i conati di vomito presero il posto del suo “ Amen “.
Quelle parole ubriache riversarono nella mente di Michele immagini nitide: La strada bagnata, il suo motorino che scivola sull’asfalto, lui che scivola via dalla sua vita. Cento giorni, Michele sorrise, erano passati cento giorni esatti dalla sua morte. Cento giorni prima dei cento giorni del poi.
Sara si avvicinò barcollando, afferrando la nuca dell’amico intento a riversare sul selciato i resti di una cena poco salutare. “ Sono sicura che in qualche modo lui è con noi “, bisbigliò la ragazza senza esserne troppo convinta. “ Più di quanto tu non creda “, Avrebbe voluto rispondere Michele, ma era una frase troppo scontata. “ Ora rilassati Fausto “, squittì l’amica, “ Pensa al futuro “. La parola futuro salì nella bocca di Michele. Lui la masticò insieme alla sua gomma. Con le spalle al muro, in quella sera di inizio marzo, rimase a vedere senza essere visto. Nel petto la sensazione che a lui, in fondo, sia andata meglio.