martedì 16 giugno 2009

JAM SESSION



Le scale, per Eric, erano diventate un problema. Gradino dopo gradino, verso le profondità del suo scantinato, serpeggiavano dolori viscidi nelle sue gambe. Con la voce in completo elegante da urlo, scartabellava nomi di santi mettendoli in coda ad aggettivi suini. Mancava poco all’alba, alla morbida alternanza di colori primi, e il nero lo avvolgeva come una coperta d’ottobre lungo la discesa.
Trovare l’interruttore nella consistenza sabbiosa di polvere e ragnatele, gli riusciva ormai automatico. Un gesto, un rumore sordo, e un’onda giallognola di luce a sporcare tutto l’ambiente circostante. Il viso di Eric assunse una forma da origami, nel cercare di abbozzare un sorriso. Di fronte ai suoi occhi gli strumenti di una vita. La chitarra Gibson comprata con i risparmi sudati, il vecchio basso di Steven e la batteria di Clark, gigantesca sotto il telo rosso tacchino.
Un sottile strato umido iniziò ad adagiarsi, scintillante, ai bordi dei suoi occhi, sospinto da ricordi inarrestabili, come le barchette di carta in seno a rivoli gonfi di pioggia.
Lanciò uno sguardo sghembo verso la finestrella in cima alla parete, l’unica fessura da cui entrava aria e dalla quale aveva lasciato uscire sogni bagnati di una gloria asciutta. Era stato giovane li sotto, erano stati giovani tutti, lui Steven e Clark. Dietro i loro strumenti avevano infestato quel luogo sordo di un frastuono siderale. Costruito, nota dopo nota, immagini di stadi pieni, come campi coltivati di delirio umano, un raccolto di mani alzate a lanciare corna al cielo.
Poi, era arrivato l’abbandono. Come un temporale estivo l’allontanamento dei suoi compagni, aveva spinto Eric a quel senso di rinuncia castrante. Rinuncia a possibili deliri fangosi a Woodstock, rinuncia alle tette grosse delle groupies, che ti fanno diventare grande nei pantaloni. Rinuncia ad una giovinezza che si allontanava allargandogli la pancia, lasciando i suoi capelli al suolo, come tracce di un “ Pollicino “ disperato, che non avrebbe più fatto ritorno.
Eric si avvicinò alla parete di fondo, dietro il dinosauro informe della batteria. Con la sua mano grassoccia, carezzò la superficie grezza dei mattoni. Dietro quella coperta di calce dormivano Steven e Clark, uno vicino all’altro, per sempre. Era riuscito a farli tornare sui loro passi, li aveva convinti a rinunciare ai sogni infranti dell’età adulta, aveva dirottato la loro insubordinazione. A volte bastava solo parlare, davanti a un buon caffè, e a due o tre zollette di topicida. Il mezzo drastico non lo infastidiva, Eric stava di nuovo con la sua band, è questo che conta in fondo, è questo che ti rende grande nelle interviste ipocrite che fanno bagnare le ragazzine.
L’alba saltò fuori come un animale in agguato, svegliando mezzo emisfero dal suo letargo notturno. Schegge rettangolari di luce, filtravano dalla finestrella in cima, a riempire lo spazio polveroso dello scantinato. Eric nella sua siluette che pungolava le pupille come un maglione a rombi, rimase a guardare, appiccicandosi alle iridi, le prime sfumature celesti, di quel cielo vecchissimo.

2 commenti:

  1. Da tempo non mi lasciavo trasportare dal flusso di parole concatentate con un nesso non meramente logico, ma descrittivo, narrativo, dinamico....Ogni periodo un nuovo dipinto, ogni proposizione, una vignetta che progressivamente si arricchisce di particolari nella mia mente, mentre gli occhi scorrono sulle righe di questo monitor, divorando il tuo racconto. Grazie Giu!!

    Stellina

    RispondiElimina